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Topic: Arpad Weisz  (Letto 869 volte)

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Offline Vinicio

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« il: Febbraio 02, 2018, 22:30:13 pm »
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L’Ajax, Guardiola, Mourinho? C’era già tutto nel «Manuale» di Arpad Weisz

Torna in libreria «Il giuoco del calcio», scritto dall’ex allenatore ungherese di Inter e Bologna morto ad Auschwitz il 31 gennaio del 1944: un testo che anticipa di decenni molte delle tendenze più interessanti del football contemporaneo

Tra i tanti libri pubblicati in questi giorni- tra le tante novità del nuovo anno - ce n’è uno che merita un’attenzione particolare. A un primo impatto, tutto sembra farne un’ innocua esumazione museale: il titolo («Il giuoco del calcio», con la u, come le antiche edizioni del «giuoco dell’oca»); i caratteri arcaici (è una ristampa «anastatica» cioè fotocopia, di un testo del lontano 1930); la gradevole copertina zigrinata verde prato ideata dall’editore (Minerva, pp. 226, 18 euro).

Nulla di più ingannevole. L’autore, infatti (assistito da Aldo Molinari, direttore tecnico dell’Ambrosiana Inter di quegli anni) è nientemeno che Arpad Weisz, tecnico ungherese di origine ebraica tra i più raffinati e innovativi del calcio della prima metà del ’900, la cui parabola viene precocemente troncata nel contesto della Shoah (muore in una camera a gas di Auschwitz il 31 gennaio del ’44). «Nientemeno», però, possiamo dirlo solo adesso. A lungo, la duplice rilevanza biografica di Weisz (l’eccellenza tecnica e la tragedia personale, o meglio familiare, dato che a Birkenau muoiono anche la moglie Elena - Ilona - e i giovani figli Roberto e Clara) è stata un geroglifico, prima dimenticato, poi muto o decifrato solo in parte. Tutte le più importanti e recenti storie del calcio internazionale (da David Goldblatt a Jonathan Wilson) non lo citano nemmeno; e nemmeno lo cita Simon Kuper nel suo libro capitale sull’Ajax come «squadra del ghetto», che pure ha lunghi passaggi sui luoghi in cui Weisz è stato detenuto (Westerbrok, in Olanda, o i campi di lavoro dell’Alta Slesia). Va leggermente meglio con le «storie del calcio» italiane, forse perché è nel nostro Paese che Weisz ha espresso il meglio (uno scudetto all’Ambrosiana e due al Bologna): ma anche lì, di norma, poche righe, con l’unica (parziale) eccezione nella «Storia» di Papa-Panico, che almeno dedicano un certo rilievo (nella disamina della «manualistica» del tempo) proprio al libro di Weisz-Molinari.

Se oggi parliamo di Weisz in termini storicamente adeguati, il merito è (quasi) solo di Matteo Marani, il giornalista-scrittore che ha speso anni di ricerche ossessive (tra archivi, biblioteche, incontri con anziani testimoni) facendo confluire tutto in un libro rivelatore, in cui il geroglifico viene finalmente decifrato («Dallo scudetto a Auschwitz», Aliberti, 2007 e poi Imprimatur, 2014). Senza Marani, sarebbero impensabili tutte le rievocazioni e i libri successivi, compreso il graphic novel di Matteo Matteucci (uscito, sempre da Minerva, lo scorso anno).

Rimandando al libro di Marani per i dettagli della parabola, è utile fissarne almeno i passaggi obbligati. Nato nella cittadina di Solt (Ungheria meridionale) nell’aprile 1896, Weisz (stesso cognome del «mago» Harry Houdini) comincia a viaggiare già da giocatore (ala sinistra «rapida e insidiosa, tutta scatti e incursioni»), tra la sua terra, la Cecoslovacchia e l’Italia (dove verrà arrestato sul Carso durante la Grande Guerra). Poi, dopo un ritiro precoce per infortunio, inizia l’apprendistato come tecnico tra Europa e Sudamerica (Argentina e Uruguay), vincendo il suo primo campionato italiano - appena 34enne, record insuperato - proprio con l’Ambrosiana Inter (’29-’30). È il periodo in cui scopre e plasma Peppino Meazza (che fa diventare ambidestro con reiterati «esercizi al muro») e tiene a battesimo Fulvio Bernardini, il futuro «“Dottor Pedata», uno dei tecnici più geniali e controversi del nostro calcio.

Il rapporto con Milano finisce a causa del presidente Pozzani (detto «Generale Po» sulla falsariga del «Generale Yen» di un film di Frank Capra). Specie di archeo-Moratti e quindi di «mangia-allenatori», il Generale è troppo invadente: mette becco nella formazione e affianca a Weisz, come tutore, un certo Bassi, così che l’orgoglio del tecnico magiaro (mitteleuropeo elegante, colto e cosmopolita, in stridente contrasto col suo interlocutore) ne viene ferito irreparabilmente, e la rottura si compie in «un dolore sordo», con Weisz che si lascia alle spalle una città - quella di Giò Ponti e della Scala all’apogeo - che è stata per lui, per dieci anni, «un’appendice italiana di Budapest».



Dopo passaggi comunque rilevanti a Novara (secondo posto in B) e Bari (salvezza prodigiosa), Weisz trova anche a Bologna un presidente agli antipodi: il caratteriale e naïf Renato Dall’Ara, gaffeur dai modi ruvidi e «scorretti» (vedi le trattative contrattuali coi giocatori, esasperati da attese interminabili e poi quasi costretti a firmare alle sue condizioni). Ma lì la biochimica tra i due, nonostante tutto, funziona, Inoltre, la Bologna di quegli anni non è inferiore a Milano quanto ad avanguardie intellettuali; una per tutte, la cattedra al locale ateneo di Roberto Longhi, lo storico e critico che rivoluzionerà la visione-interpretazione dell’arte italiana (vedi i saggi-break su Piero e Caravaggio).

Il contributo di Weisz - in questo contesto - è altamente innovativo su due livelli: quello del training e dell’organizzazione societaria (il terreno del Littoriale affidato alle cure di un’azienda specializzata come la De Bernardi di Torino; la richiesta di un «gabinetto medico»; le sedute condotte dal tecnico non in borghese, ma in divisa da atleta, mescolandosi ai giocatori); e quello strettamente filosofico-tattico, con la sintesi originale dell’antitesi tra il «metodo» di scuola danubiana e il «sistema» inglese di Chapman (in cui - come risposta alla nuova regola del fuorigioco del ’25, con due e non più tre difensori sufficienti a tenere in gioco l’attaccante - il centromediano arretra a stopper sulla linea dei terzini).

Producendo un calcio insieme razionale e spettacolare, capace di esaltare al meglio giocatori fisici e tecnici (gli italiani Schiavio e Biavati, gli uruguagi Fedullo e Sansone) Weisz riesce a spezzare contro ogni previsione la lunga egemonia bianconera. Anche se forse il segmento più luminoso è la coda al secondo scudetto (conquistato il 2 maggio ’37), cioè la partecipazione dei rossoblù, un mese dopo, in Francia, al Torneo internazionale dell’Expo Universelle, equivalente dell’attuale Champions.

Il Torneo raduna gli otto migliori team continentali: oltre al Bologna, Austria Vienna, Chelsea, Lipsia, Phobus Budapest, Slavia Praga e le due francesi, Sochaux e Olimpique Marsiglia. Nel suo girone - l’eliminazione è diretta - la squadra di Weisz affronta prima il Sochaux, liquidandolo con un netto 4-1; poi lo Slavia, battuto con un altrettanto netto 2-0, e si guadagna così la finale contro il Chelsea (stesso punteggio nell’altra semifinale contro gli austriaci). Il 6 giugno, al Colombes di Parigi - davanti al «fior fiore della critica europea» (Brera) - la squadra di Weisz si presenta come vittima sacrificale, col pronostico tutto dalla parte dei «Maestri»: ma la vittoria rossoblù (un altro 4-1) vede lo stadio inchinarsi al Bologna e al suo tecnico.

Antefatto di un’altra sequenza esaltante del calcio italiano (l’anno dopo, sempre al Colombes, gli azzurri di Pozzo vinceranno il loro secondo Mondiale), quel successo memorabile rappresenta invece il vertice effimero della parabola di Weisz: il momento di maggiore appagamento pronto a rovesciarsi - con un’accelerazione imprevedibile - nel suo contrario. Il paradosso di un tecnico «ebreo» che contribuisce a valorizzare il calcio dell’Italia fascista viene infatti presto a risolversi: dopo un anno di interludio (’37-’38, comunque un buon quinto posto), Weisz verrà allontanato dal Bologna all’inizio della successiva, dopo appena cinque giornate e dopo una vittoria interna (2-0) contro la Lazio: il vero motivo (sotto la reticenza pavida di una stampa che scarica il tecnico) è l’entrata in vigore, un mese prima, delle «leggi razziali». Quelle leggi (per chiosare il discorso di questi giorni del presidente Mattarella) che non rappresentano, insieme all’«entrata in guerra», «incidenti di percorso» di un regime che «ha fatto tante cose buone», ma l’emanazione diretta e coerente di un’ideologia deviante e (auto)distruttiva.



Da quel giorno (26 ottobre ’38) la vita di Weisz e della famiglia segue - pur con qualche allentamento - una progressione angosciosa, che il libro di Marani rifrange in ogni piega minima. Costretto a partire subito e a troncare ogni legame affettivo (il figlio Roberto non fa nemmeno in tempo a iscriversi alla terza elementare), il gruppo ripara a Parigi. Ma siccome anche lì presto il vento gira (a dicembre il ministro degli Interni Bonnet rassicura Ribbentrop che la Francia ha intenzione di «chiudere la frontiera al popolo del Libro»), devono salire in Olanda, a Dordrecht, polo commerciale dell’antica Lega Anseatica immortalato in un romanzo di Dumas («Il tulipano nero») e in una poesia di Proust.

Sarà l’ultima «sospensione del tragico» nella parabola dei Weisz. Il centro di una città dominata dall’industria pesante - esteso dalla stazione liberty alla svettante torre gotica - sembra accoglierli e proteggerli; e anche il team cui approda il tecnico (il Dfc), squadra gregaria di dilettanti e studenti, con uno stadio di appena 5.000 spettatori in aperta campagna - ha comunque tratti di nobiltà (è stata allenata dal leggendario Jimmy Hogan agli esordi). Nei ricordi degli ottuagenari e nonagenari incontrati da Marani - su tutti l’affezionato Nico Zwann - Weisz riemerge con nitidezza toccante, in aspetti noti e inediti: come preparatore atletico innovativo e poco indulgente (alla prima seduta fa loro togliere le sciarpe, abituandoli presto a correre anche con pioggia e neve); come tattico senza pari (specie nelle «istruzioni» della domenica mattina all’Hotel Ponsen, fascinosa istituzione architettonica del luogo); come maieuta disponibile e inflessibile (che cura il rapporto con ogni giocatore); e come allenatore-intellettuale (talmente immerso, per strada, nei fogli del quotidiano, «da inciampare o sbattere contro le persone del marciapiede»).

Rilevata la squadra all’ultimo posto (in uno dei cinque gironi, l’ovest B, della serie maggiore), Weisz la conduce a una lenta risalita: fino alla vittoria (11 giugno ’39, 2-1) nello spareggio contro l’Uvv per la permanenza in Eredivisie. È un altro dei suoi capolavori tecno-agonistici, preludio a una stagione eclatante (’39-’40), col Dfc che arriverà quinto, battendo in casa squadre di vertice come il Feyenoord e lo Sparta Rotterdam; ed è l’ennesima prova di come la passione e il talento (di Weisz come di chiunque) possano adattarsi e modularsi a contesti di diverso livello, mantenendo invariato il proprio slancio e la propria tensione costruttiva.

L’unico modo per uccidere la passione e il talento è reciderli con la violenza: togliere loro ogni possibile oggetto cui applicarsi. Uno grande scrittore può adattarsi a scrivere per editori o giornali minori, un bravo direttore-concertatore a guidare orchestre di provincia: ma nessuno può sopravvivere all’interdizione totale. Ed è quello che succede a Weisz. Con un provvedimento del 29 settembre ’41 (documento n°1621) il Commissariato di Polizia locale intima ai dirigenti del Dfc (in obbedienza a un’«ordinanza» di un paio di settimane prima sul «pubblico comportamento degli ebrei») di «dimissionare» Weisz dall’incarico. Nonostante il sostegno di squadra e società - a partire dal presidente Van Twist - l’allontanamento è inevitabile. E la sequenza successiva - forse meno tragica di quella della sua morte fisica, ma non meno struggente - vede il tecnico seguire le partite dei suoi ragazzi («i progressi dei giovani che ha promosso titolari») «fuori dalle basse gradinate» dello stadio e «attraverso le fenditure della tribuna»; o nascosto dietro il botteghino dei biglietti, «coperto dal palo della bandiera olandese».

Da quel momento la sua storia e quella della sua famiglia si sovrappongono a quelle di tanti ebrei riparati in Olanda, nel contesto di un scontro sottostante tra «resistenti» e «collaborazionisti» (su questo, il libro citato di Simon Kuper sull’Ajax ha pagine decisive). I primi non si limitano a manifestare una solidarietà «rituale» (i fiori gialli su giacche e vestiti), spingendosi a contrasti ben più sostanziali come lo sciopero organizzato dai trasporti e dall’industria il 21 febbraio ’41 (20.000 operai del «settore armamenti» con le braccia incrociate) contro le norme antisemite; ma proprio la repressione brutale di quel dissenso (piegato in tre giorni dalla legge marziale del generale dell’aviazione Chiristensen) mostra come i secondi - largamente prevalenti - contassero sull’appoggio decisivo di molte autorità. Sintesi di tutto, la frase dell’ex SS Willy Lages a guerra finita: «Non saremmo stati in grado di arrestare neppure il dieci per cento degli ebrei senza l’aiuto degli olandesi».

Quello che accade alle 7 del mattino del 2 agosto ’42 nella casa dei Weisz a Dordrecht in Betlehemplein, 10 road (in realtà una piazza, con road che in olandese sta per rosso, uno dei colori dei civici oltre al blu) non può non richiamare quello che accadrà la mattina del 4 agosto di due anni dopo ad Amsterdam, Prinsengracht 263, rifugio dei Frank (e in molte altre case olandesi di quegli anni). Non la Nsb - la polizia nazista locale - ma direttamente la Gestapo irrompe nell’abitazione, dando alla famiglia Weisz pochi minuti per raccogliere l’essenziale e venire «tradotta» (via treno) a Westerbrok.

È l’ultima sequenza. Saliti tutti e quattro su un secondo treno, si separeranno: Elena (Ilona) e i bambini finiranno a Birkenau, dove verranno uccisi dal gas all’alba di tre giorni dopo; Weisz scenderà a Cosel, «parcheggiato» in non meglio precisati «campi di lavoro» dell’Alta Slesia prima di finire ad Auschwitz, con quel «tempo intermedio» in Polonia come unica faglia della sua parabola (e della ricerca di Marani).

In ogni caso, l’epilogo di Weisz è diverso da quello di altri trainer di valore di quegli anni. Da quello, per esempio, di John Reynold alias Jack Reynolds, rinchiuso anche lui in un campo dell’Alta Slesia (Tost, lo stesso dello scrittore-umorista Wodehouse) prima di diventare nel dopoguerra il padre fondatore dell’Ajax e il mentore di Rinus Michels e del «calcio totale». O da quello di tutti gli altri grandi coach ungheresi come Márton Bukovi, Béla Guttmann e Gusztáv Sebes (tutti esponenti, tra club e Nazionale, di un delle «scuole» più ammalianti del calcio di sempre). E persino da quello di Erno «Egri» Erbstein, l’artefice del Grande Torino che morirà con la squadra nella tragedia di Superga, ma dopo essere sfuggito alla Shoah riparando in Svezia.

Forse, l’unica vera prossimità con Weisz è quella di Matthias Sindelar, l’esile «Mozart del calcio» del Wunderteam austriaco, trovato morto nel suo appartamento viennese il 23 gennaio ’39 (insieme alla fidanzata italiana di religione ebraica Camilla Castagnola). Autopsia e indagini immediate liquidano il caso come «avvelenamento da monossido di carbonio» (forse per un caminetto difettoso), ma nel tempo crescono i sospetti su un decesso non accidentale: oltre alle ascendenze ebraiche dei fidanzati, va ricordato come Sindelar fosse seguito dalla Gestapo dopo la doppia «provocazione» nella partita celebrativa dell’Anschluss («annessione») tra Austria e Germania (2-0): l’esultanza sotto il palco nazista dopo il suo gol e il rifiuto di omaggiare i gerarchi alla fine.

Gennaio, com’è noto, è il mese del «giorno della memoria» (27 gennaio ’45, apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dei sovietici). Pensando alle morti di Weisz e Sindelar, diventa ancor più il mese della memoria nel suo insieme.

Veniamo così al «manuale» di Weisz-Molinari, cui è impossibile accostarsi senza vedere e sentire dietro ogni frase - ogni parola - le sequenze appena percorse, interrogandoci, va da sé, su quanto avrebbe potuto dare Weisz se fosse sopravvissuto, e come si sarebbe evoluto il calcio italiano in sua presenza. Ricordando - con Papa e Panico - come tra i tanti manuali di quegli anni risaltino proprio quelli dei magiari (oltre a quello di Weisz, quello di Jan Vaniczek, di quattro anni dopo), il testo risulta di un’attualità concettuale-lessicale (lessicale ancora prima che concettuale) stupefacente anche per lettori specialisti.

A livello generale, Weisz nota come tra i «caratteri differenziali del giuoco del calcio» spicchi il suo «essere esclusivamente collettivo» (corsivo nostro, a rafforzare il peso dell’avverbio), al punto che «l’esibirsi dei singoli» è spesso «dannoso al complesso della squadra»: principio da cui derivano molti sotto-principi, come quello - particolarmente indigesto da noi ancora oggi - che vede il «passaggio» sempre anteposto al dribbling (funzionale solo a situazioni specifiche).

Ma è nel dettaglio che Weisz rivela la finezza sconcertante (specie a posteriori) della sua visione-concezione, cioè nelle indicazioni ruolo per ruolo, ognuno dei quali fondato su un «giuoco di posizione» che si estende alla squadra nell’insieme (anche qui si noti il lessico, dato che il «positional game» sarà la base e il cardine del «calcio totale», dall’Ajax all’ultimo Guardiola). Il tutto tenendo a timone lo schieramento-base del metodo (due terzini, tre mediani, due mezzali, due ali e un centravanti).

Il portiere, secondo Weisz, deve «leggere» in anticipo la dinamica dell’azione avversaria, le intenzioni di un’ala (crossare alto, rasoterra o tirare) o i caratteri di un tiro (la «fisica» della sua traiettoria). È una disposizione «previsionale» più vicina - si direbbe oggi - a un’idea proattiva che reattiva del gioco.

I terzini (possibilmente alti e potenti, ma non a danno della loro «elasticità») devono unire senso di posizione e capacità di pressione in primis sull’ala, tanto che il concetto-base ( «l’importante è che il pallone, calciato dall’avversario mentre è pressato e con un senso di panico, non abbia esatta direzione e possa essere ripreso facilmente da un compagno del terzino») è di fatto una vera e propria «induzione all’errore» come nel pressing-pressione attuali. Mentre descrivendo il «rimando» (la respinta), Weisz sottolinea come ai colpi di testa vigorosi (quelli che «fanno andare in visibilio» gli spettatori ma finiscono regolarmente preda dell’avversario) siano da preferirsi - di testa ma non solo - i «tiri misurati» verso i compagni, specie le ali, per non sprecare il pallone (il Pep applaudirebbe). Anche se, in ogni caso «il come del rimando deve essere determinato dai bisogni del momento»: rilancio per costruire (preferibile) o per liberare (extrema ratio) sono contestuali-situazionali. Senza dimenticare un paio di istruzioni specifiche sul training: la necessità di allenarne l’accelerazione (gli scatti di 30-40 metri sulle ali avversarie) ricordando come quegli scatti si innestino sulla «corsa lenta» di fondo (il che si tradurrebbe oggi in una gestione equilibrata del rapporto resistenza-velocità); e la conseguente attenzione a non sollecitare troppo «i muscoli estensori», fonte di molti infortuni non traumatici.

I mediani, cioè «il terzetto dei sostegni» (il più massiccio centrale - che nel «sistema» si abbassa a stopper - e i due laterali, più agili) devono allenarsi su tre fasi connesse (marcatura-intercettazione-distribuzione, quest’ultima calciando il pallone di precisione «tra due piuoli» a diversa profondità), ma soprattutto devono verificare nel training il loro tempo di avvicinamento a un avversario col pallone (oggi diremmo la «scalata», offensiva o difensiva) per capire quando aggredire e quando attendere.

Quanto ai cinque «avanti» (le due semi-ale o mezzali, le due ali e il centravanti), Weisz li vede accorpati in una strategia offensiva che sia implicitamente un aiuto a quella difensiva, perché una «prima linea» che sa «tenere il pallone» e dotata di «forza penetrativa» comporta in sé «il minor lavoro della propria difesa». Ne conseguono le indicazioni al dettaglio: alle ali (allenare il rapporto velocità/tecnica; osare il dribbling - qui sì - in luogo di un ordine anonimo; abituarsi a giocare sullo stretto; tagliare sulla linea dell’offside sui passaggi centro-ala; rimettere la palla verso il centro a 8-9 metri dal fondo); alle mezzali (ripiegare solo quando necessario per non consumare fiato; scambiare la posizione con l’ala per variare il gioco; avanzare per triangoli e sponde con ali e centravanti, «incrociare» i passaggi - la mezzala destra all’ala sinistra e viceversa; e ai due tipi di centravanti (quello individualista e accentratore, che dovrà fare reparto, e quello «di manovra», che dovrà fraseggiare con precise modalità).

Per tutti - ma ancora una volta per le ali in primis - il training tecnico-tattico sono i movimenti in velocità «col pallone e senza il pallone» e il tempo del rilascio della giocata, magari dopo aver attirato un avversario per darla al compagno smarcato (corsivi sempre nostri per mostrare come qui si condensi tutto quello che precede, in una visione altamente dinamica del gioco).

Ma il libro contiene molti altri passaggi su vari livelli: pedagogico (il calcio come «lingua straniera» più facile da apprendere nella «puerizia» che dopo); filosofico-tattico (in quali situazioni usare i passaggi «corti e fitti» della «scuola scozzese» e in quali quelli «volanti e lunghi« della «scuola inglese»); manageriale (l’importanza dei vivai e la falsa credenza che un bravo trainer debba essere stato per forza un grande giocatore, quando a contare sono le «doti didattiche spiccate»); e ambientali (incidenza sul match di stato del terreno, clima - il vento su tutto -, dimensioni del campo, e così via). La sintesi è la concezione dell’atleta (altro aspetto iper-attuale) nella sua globalità: come riassume Pozzo nella prefazione, Weisz studia il calcio «concatenando motivi tecnici e motivi psicologici» (infatti monitorava stati e umore dei giocatori nel training e nel privato).

A lettura conclusa, il «manuale» mostra non solo quanto sia rozzo il pregiudizio che vede il calcio «delle origini» come una vasta, desertica «età della pietra» tecnico-tattica; ma - più sottilmente - come una visione innovativo-sperimentale condivida spesso tratti, tensioni e direzione di ricerca con le successive: trovare già in Weisz tanti passaggi delle avanguardie di oggi (dal training di Mourinho al gioco di Guardiola) è come sentire la continuità tra «Metropolis» di Fritz Lang e «Blade Runner» o «Matrix».

Grazie a questa ristampa, l’immagine di Weisz acquisisce un ultimo tassello, rendendo una volta per tutte inseparabili la parabola dell’uomo e quella del trainer. E aprire il «Manuale» - ogni giorno dell’anno - ci suggerirà come ogni giorno (non solo quello «della memoria») sia quello giusto per ricordare….

http://www.corriere.it/sport/18_gennaio_30/ajax-guardiola-mourinho-c-era-gia-tutto-manuale-arpad-weisz-bc8e5052-05af-11e8-b2bd-b642cbae90d8.shtml?cmpid=PA178012501DCOR


    Offline Eternauta

    • Gianfranco Zola
    • **
    • Post: 1996
    • Karma: 23
    • Squadra del cuore:
    « Risposta #1 il: Febbraio 02, 2018, 23:51:29 pm »
    Triste e interessante
    Spiacente, ma non sei autorizzato a visualizzare il contenuto degli spoiler.

       

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