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Topic: Gregory Porter  (Letto 451 volte)

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Offline Sonny Boy

  • Omar Sivori
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« il: Luglio 11, 2014, 10:06:42 am »
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Gregory Porter è un viaggio nel tempo che finisce dritto dentro un jazz club anni ‘50 pieno di cuori infranti. Ai tavoli, gente malinconica e ben vestita e, sul palco, un tizio che nella voce ha Nat King Cole e Mahalia Jackson, Marvin Gaye e Billie Holiday. Gregory Porter è, semplicemente, una delle più belle voci in circolazione. Un baritono che unisce la purezza cristallina del jazz e il calore doloroso del blues con la sensualità del soul e dell’R&B. All’attivo ha tre album. I primi due, “Water” (2010) e “Be good” (2012), gli valgono la nomination ai Grammy e il riconoscimento internazionale come uno dei grandi interpreti sulla scena. Il terzo album, “Liquid Spirit” (2013), segna il passaggio alla mitica etichetta Blue Note, la vittoria del Grammy come Best jazz vocal album nel 2014 e la consacrazione nel pantheon del jazz.
Non era affatto scontato che questo gigante dal cuore tenero, che sul palco indossa sempre un cappello-coperta-di-Linus col paraorecchie, diventasse uno dei più rispettati interpreti della nuova generazione.  La sua storia sembra scritta da un bravo autore di ballad strappacuore e racconta di un tizio, classe 1971, cresciuto a Bakersfield (California) con la madre, ministro di culto, in una casa piena di predicatori e cori gospel. La leggenda vuole che poco prima di morire di cancro la madre abbia dato un buon consiglio a quel ragazzo che aveva deciso di mollare tutto e diventare funzionario comunale: “Gregory, quello che tu sai fare è cantare, non dimenticarlo”. "Keep on singin", gli dice, “continua a cantare”.

Ci sono voluti più di venti anni, al signor Porter, per diventare una star del jazz. Vent'anni in cui è passato dall'essere un potenziale giocatore professionista di football (eventualità poi scongiurata da un provvidenziale - per i suoi fan - infortunio) a comprimario di band, cori gospel e musical, fino a diventare Gregory Porter. Sempre facendo i conti con un’altra figura chiave, quasi uno stereotipo: il padre assente. Anzi, due padri. Quello biologico, “carismatico ed errante”, che abbandonò la famiglia e che sta a Gregory Porter come Erich Fletcher Waters sta a Roger Waters dei Pink Floyd: un’assenza dolorosa che genera strofe e note. E poi l’altro padre, quello spirituale e musicale: Nat King Cole. Per lui Porter ha una venerazione da quando ne scopre le canzoni grazie al giradischi di casa e ne fa il suo papà immaginario.

Il ragazzo, che tutti definiscono come una bestia sul campo di football ma un gentiluomo fuori, continua quindi a cantare, si trasferisce a New York, scrive belle canzoni, interpreta magistralmente gli standard e registra per Motéma, un'etichetta di culto che gli produce i primi due album "Water" (2010) e "Be Good" (2012). Oggi Porter è un nome che pesa e “Liquid Spirit” è un disco che non può mancare in una discografia almeno accettabile. Brani come “Hey Laura”, “No love dying”, “Liquid spirit” e “Water Under Bridges” si fanno ascoltare a ripetizione senza stancare mai. Come pure la bellissima “When love was king”: dove va in scena un duetto voce - pianoforte in otto note, da cui esce un tema strappacuore.

Dal vivo, poi, Porter dà il meglio di sé, rielaborando gli standard (bellissima l’interpretazione di Skylark) e i suoi brani originali con l’aiuto di musicisti di altissimo livello: Chip Crawford al piano, Aaron James al basso, Emanuel Harrold alla batteria e Yosuke Satoh al sax per un concerto, come si dice di solito, da non perdere.
Da Repubblica

    Offline Sonny Boy

    • Omar Sivori
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    « Risposta #1 il: Luglio 11, 2014, 10:14:31 am »




       

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