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Sonny Boy

    Omar Sivori
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Ci sono giocatori per cui la carriera professionistica viene influenzata dalla propria vita personale, dalle proprie credenze e dai propri problemi molto più di quanto non siamo abituati a vedere su altri atleti. Non necessariamente in peggio, semplicemente la sfera personale finisce per collidere naturalmente con quella professionale. Creando storie, esperienze uniche nel panorama della pallacanestro. Chris Jackson è uno di quelli che nel corso della propria carriera qualche motivo per farsi ricordare l'ha trovato. La Sindrome di Tourette, suo malgrado, è uno di questi. Una patologia, termine improprio perchè tecnicamente tale non è, che può andare dalla bassissima invadenza alla quasi totale incapacità di relazionarsi con le altre persone. Comporta tic, movimenti facciali e verbali inconsulti, incontrollabili.
Per Chris Jackson è sempre stato un problema piuttosto visibile, sul campo da gioco quanto nella vita normale. Uno sconosciuto tuttalpiù guardava quel ragazzo di un metro e ottanta agitarsi ogni tanto, ma non immaginava che poteva starsene sdraiato sul letto ad urlare perchè non riusciva a prendere sonno, perchè quei maledetti tic non lo lasciavano stare. O tirare, e tirare, e tirare, e tirare ancora, all'infinito, finchè non partiva un'automazione mentale che diceva che finalmente era stato fatto tutto perfettamente. Che la palla non aveva toccato null'altro che la retina, che era girata nelle sue mani nel modo in cui doveva girare, che il movimento era stato fatto nel modo giusto. E che finalmente poteva andare a casa od uscire con gli amici. Paradossalmente, però, in mezzo alle mille difficoltà trovò anche il modo di aiutarlo nella sua carriera di giocatore. Perchè quei miliardi di tiri in solitudine lo resero uno dei più clamorosi tiratori che si siano mai visti a qualsiasi latitudine, a livello di percentuali, meccanica fluida e velocità esasperante di esecuzione. Ed in più, perchè nonostante tutto sviluppa un controllo mente/corpo superiore che sulle persone normali.

Tradotto, una coordinazione inarrivabile. Chris Jackson, dicevamo, anche se non è con questo nome che la maggior parte delle persone lo conoscono, nacque nel 1969, nello stato del Mississipi, a Gulfport, da una madre che presentava sintomi simili al proprio figlio, il secondo di tre, avuti da tre uomini diversi e che si erano dimenticati di fare i padri. Famiglia povera, se non poverissima. Per Chris anche solo andare a scuola era un problema, gli ci voleva un'ora per mettersi i pantaloni, ed una volta a scuola non gli rimaneva che pregare che quei tic maledetti se ne andassero. Non succedeva, il fatto che all'epoca la sindrome non gli fosse ancora stata diagnosticata non lo aiutò, per nulla. Chris tra le altre cose passava una quantità di tempo impressionante sul playground. A tirare. E tirare. E tirare ancora. Fino a raggiungere la perfezione. Come se non bastasse il piccoletto non difettava nemmeno di atletismo e velocità, dove per “non difettava” si intende che da quelle parti, nello stato del Mississipi, non si era mai visto un giocatore lontanamente paragonabile prima dell'arrivo di Monta Ellis. La quantità di record che stabilì lo portarono ad essere uno dei liceali più contesi dai più importanti college americani. Potendo permettersi di scegliere, finì per barrare la casellina di Lousiana State University.

Il primo anno scollinò i trenta di media, non è uno scherzo, stabilendo il record ogni epoca per punti complessivi in una stagione per un freshman. Di tutti i college degli Stati Uniti. Robetta. Il secondo anno si confermò, guadagnandosi pure la copertina di Sports Illustrated. Ma soprattutto aveva ormai cominciato a far conoscenza con Malcolm X, con la sua autobiografia, e di riflesso con la religione islamica, di cui era più che intrigato. Andare avanti nel college però non era il caso. La madre non aveva nemmeno i soldi per comprarsi da mangiare, era il momento di passare professionista. Al draft del 1990 finì alla numero tre, ai Nuggets, dietro Derrick Coleman e Gary Payton. Le aspettative erano ovviamente altissime, tanto quanto la curiosità di vedere questo piccolo fenomeno che nel tornare in difesa strizzava la testa, strabuzzava gli occhi o saltellava di qua e di là. Tecnicamente il giocatore l'abbiamo già brevemente descritto: realizzatore semplicemente irreale, atletismo e velocità smisurate, tiro rapidissimo e letale. Non un play puro, ed essendo solamente uno e ottanta il dubbio risiedeva lì, ma l'occhio per il passaggio non gli è mai mancato comunque.

I primi due anni non vanno granchè bene: da rookie si infortuna, ingrassa e sul campo non rende quanto il talento gli permetterebbe. Più di tutto, non si sente a posto con sé stesso, appesantito da un ambiente, quello della NBA, che non sente suo. Nel 1993 la conversione all'Islam, da cui ormai era stato rapito, diventa ufficiale e definitiva. “Con il mio background da cristiano avevo alcune risposte insoddisfatte. Era come se stessi diventando qualcuno che non dovevo diventare”. Furono le parole di Chris Jackson. Non fu indolore. Ormai era sposato, con Kim, da cui cercò supporto, comprensione. Ma voleva anche che mettesse il velo in pubblico. In breve tempo arrivò il divorzio. Anche le altre persone a lui più vicine, dalla madre, ai fratelli, agli amici arrivando al suo agente, facevano fatica a capirlo, “credevano che fossi una specie di automa che non sapeva pensare con la sua testa, come se qualche cellula fondamentalista mi avesse programmato per sfruttare il mio essere famoso per i loro scopi”. Avrebbe dovuto anche cambiare il proprio nome, ma non sapendo nemmeno da dove cominciare, chiese a due imam di sua conoscenza. Uno disse Mahmoud, l'altro Abdul-Rauf, il nome era stato trovato. Per prepararsi al terzo anno si allenò nove ore al giorno, trovando il tempo anche per le preghiere. Diventa un altro giocatore, finisce a 19 di media, vincendo il trofeo di giocatore più progredito (l'anno precedente finì a dieci punti a partita) e partecipando alla gara delle schiacciate, nella prima delle due edizioni vinte da Harold Miner. Infine, l'estensione contrattuale per altri cinque anni. Come per la sua vita privata, la conversione però influenzò anche quella lavorativa. Non poteva far la doccia nudo con i suoi compagni, pretendeva una stanza privata ed osservò il ramadam in piena stagione NBA, facendogli perdere chili e chili di peso. Anche rispettando le sue idee, conviverci non era semplice, non frequentava l'ambiente NBA, finite le partite si ritirava a casa a leggere Malcolm X o Martin Luther King e non faceva spogliatoio.

L'anno successivo arrivò vicino ad un record storico: su 229 tiri liberi totali ne mandò a segno 219. La perfezione di cui si parlava prima. Ovviamente primo della Lega, con un clamoroso 95,6%. Il “brutto” è che se invece che 219 ne avesse segnato anche soltanto uno in più, avrebbe superato il primato ogni epoca, tutt'ora imbattuto, detenuto dal 1980 da Calvin Murphy, che con 206/215 tirò con il 95,8%. Negli anni dopo l'esplosione le cifre andarono leggermente in calando, certo 18 e 16 punti a partita non identificano un brocco, ma per uno che arrivava dal college con la fama di uno dei migliori realizzatori mai usciti di lì, erano comunque pochini. La stagione migliore a livello statistico, e parlando di carriera la più importante, arrivò nel '95-96. Ancora a Denver, le medie realizzative furono le stesse del terzo anno, 19,2, in compenso migliorò sensibilmente negli assist, 6,8, abbondantemente top in carriera. Ma al di là delle statistiche, sono quattro le cose che si ricordano di quell'anno, una più di tutte. Smazzò venti assist in novembre, contro Phoenix, segnò cinquantuno punti un mese dopo contro Utah, grazie anche ad un 9/14 da tre piuttosto eloquente e disintegrò in prima persona la Chicago da 72 vittorie, tutt'ora record imbattuto della storia della NBA. Lui li demolì, letteralmente, con 32 punti, nove assist ed un dominio imbarazzante.

Ma soprattutto, l'Anthem Controversy. All'inizio della stagione fece sapere ai Nuggets che non avrebbe partecipato all'inno nazionale di inizio partita. Disse che lo considerava un rituale nazionalistico cieco che dimenticava degli errori e delle barbarie fatte in passato. Per lui era peccato. Sotto precisa richiesta della NBA la cosa passò sotto silenzio, i suoi compagni lo tennero nascosto. Semplicemente, durante l'inno rimaneva negli spogliatoi o nel tunnel.

Fino al marzo del 1996, a stagione ormai quasi finita, quando quasi per sbaglio si trovò insieme alla sua squadra, durante l'inno. L'unica cosa che fece fu quella di sedersi nel momento esatto in cui tutto il palazzo si alzò. Un gesto senza precedenti. La NBA lo sospese a tempo indeterminato, in realtà sanzione rimossa dopo un solo giorno. Arrivò ad un compromesso per cui il giocatore sarebbe stato in piedi durante l'inno, ma con gli occhi chiusi ed il capo chinato in preghiera. Ma ormai il danno era fatto, l'opinione pubblica si spezzò in due. “Non avevo nessun guadagno personale per farlo, o alcun motivo egoistico. So che quel che ho fatto non è sbagliato”. Mentre la NBA, i giocatori, i tifosi, si schieravano da una parte o dall'altra, raramente la versione di Abdul-Rauf fu ascoltata. Questo non alterò comunque la sua tranquillità e sicurezza. “Di cose ne sento tantissime sul mio conto. Non la prendo come un fatto personale, non posso arrabbiarmi con ognuno per quello che dice di me. Cosa risolverei facendo così?”. Dopo la sospensione tornò a giocare, ma, parole sue, non lo fece per i soldi. “Le cose che penso e che ho pensato quando mi son rifiutato non erano sbagliate. Probabilmente però non hanno rappresentato il miglior approccio possibile. Questo mi ha reso più forte, più tranquillo, ha rafforzato le mie idee. Non volevo certo essere un problema di ordine pubblico, ma ho dovuto conviverci. Mi ha permesso di riflettere, pensare ancora di più”. In compenso dovette convivere con insulti, accuse di terrorismo – poche settimane dopo la sua conversione, più precisamente il 26 Febbraio del 1993, ci fu la bomba piazzata da Al-Qaeda sotto il World Trade Center che uccise sei persone e ne ferì oltre mille – ed insofferenza generalizzata.

Da quel momento anche nella NBA fu una vita difficilissima. Le sue parole “spero che la gente capisca il mio punto di vista” furono rispettate da alcuni ma non da tutti. Charles Barkley, uno che anche ora esprimerebbe la propria opinione anche sul colore dei jeans di un perfetto sconosciuto – allo stesso modo è assai difficile trovare una sua dichiarazione che non sia interessante – disse che gli sarebbe piaciuto molto che a Mahmoud fosse stata data più possibilità di replica, che gli avessero dato l'opportunità di spiegare le proprie azioni, dichiarazioni che lo stesso giocatore musulmano non mancò di apprezzare. L'anno successivo venne mandato senza troppi complimenti a Sacramento, e da lì cominciò il suo rapido declino come giocatore NBA. Due stagioni in cui il rendimento, rispetto ai fasti di Denver, crolla vertiginosamente, passando dai diciannove ai tredici del primo anno ai Kings, ai sette del secondo, in sole trentuno partite giocate. “Giocare nella NBA era diventato quasi impossibile”, disse a distanza di anni, da qui la decisione di firmare un contratto di due anni con il Fenerbache, “non ho nessun problema a viaggiare per giocare, la NBA non è l'unico luogo dove posso fare ciò che amo”. Dopo un anno però annuncia il ritiro, il 22 giugno del 1999, a soli trent'anni. Si chiude qui la storia di Mahmoud Abdul-Rauf giocatore professionista? Macchè, non era nemmeno a metà strada. Nel 2000 torna brevemente nella NBA, firmato da Vancouver, franchigia canadese, guardacaso. Ma è poco più di una comparsata.

Nella vita privata a tratti andava molto peggio. Risposatosi con April, una vecchia amica del liceo convertita all'islamismo, si vide la proprietà da 2000 metri quadri poco fuori da Gulfport completamente imbrattata e vandalizzata da dei membri del Ku Klux Klan. Misero la casa in vendita, rimase invenduta per diversi mesi, finchè qualcuno alla fine non la bruciò. Arrivarono due anni di inattività, in cui successe qualcosa di piuttosto importante, a livello mondiale. L'undici settembre. Che toccò direttamente Mahmoud e la sua religione, e che non aiutò certo il giocatore a farsi amici nuovi all'interno degli Stati Uniti. Anche perchè toccato sull'argomento non rifiutò di dire la sua opinione: “Allah insegna che se qualcuno ti fa del male e ti attacca, devi rispondere allo stesso modo, è così che ci si guadagna il rispetto. Guardo tutte le guerre che conducono gli americani, in Iraq, in Afghanistan e vedo una guerra generalizzata contro l'Islam. Non possono aspettarsi che tutti reagiscano nella maniera educata che un buon musulmano con buon senso dovrebbe adottare. Arrivi ad un certo punto che diventa colpa tua, America”.

La sua carriera cestistica riprende: nel 2003 è all'Ural Great Perm, in Russia, l'anno successivo si fa tentare dalle sirene italiane e finisce a Roseto (con Woodward ed Ansu Sesay), dove, pur tra mille acciacchi, concluderà la stagione a diciotto di media, nonostante le trentacinque primavere, partecipando anche all'All Star Game. Un altro anno fermo per riprendersi dai continui problemi, e subito il ritorno sul campo, stavolta all'Aris di Salonicco.

Dopo la Russia, l'Italia e la Grecia è il turno dell'Arabia Saudita – Al Ittihad – fino allo sbarco in Giappone nei Kyoto Hannaryz , nel 2009. Anni quaranta. Il livello è ovviamente quello che è, seppur poi la Lega pulluli di giocatori americani come Robert Swift e Kenny Satterfield, ma nonostante tutto la forma di Abdul-Rauf è invidiabile per un atleta della sua età. Si trova così bene in terra nipponica che dopo una stagione a 18 di media rinnova anche per l'anno successivo, ovvero la stagione attuale, 2010/2011. Tradotto, attualmente la 41enne guardia di Gulfport sta giocando dall'altra parte del mondo, in una Lega in cui più della metà degli allenatori sono più giovani di lui. Ma ancora con l'entusiasmo di quando tirava come un pazzo al playoground, come se nulla fosse cambiato. “Tutti diventano vecchi, perfino i più giovani. E' normale, cerco soltanto di tenere in forma il mio corpo meglio che posso”. E se qualcuno dovesse aver dubbi sulle motivazioni di un ultraquarantenne o dovesse chiedergli qualcosa del suo gioco? “Non mi sono mai considerato perfetto e mai lo farò, puoi sempre migliorare, in qualsiasi aspetto, basta volerlo. Anche alla mia età”. Si diceva come se nulla fosse cambiato, come se avesse ancora dieci anni e fosse in quel campetto a tirare centinaia di tiri liberi, sempre alla ricerca della perfezione.



Per chiudere tre video, che per motivi diversi val la pena vedere.



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